AUSCHWITZ – Uccidere per non essere ucciso. Cremare i corpi di amici e parenti per non finire nel forno. Nei campi di concentramento era questo era il compito dei “Sonderkommando”, formazioni militari composte da deportati per lo più ebrei. Durante la 2° guerra mondiale, le “unità speciali” (questa la traduzione) erano costrette a occuparsi della raccolta e della cremazione dei cadaveri di tutte le vittime: ebrei, oppositori militari e politici, partigiani, slavi, polacchi, omosessuali, portatori di handicap e molti altri ancora. All’arrivo nei lager, venivano scelti i più robusti, i più muscolosi: avrebbero dovuto trasportare sulle braccia migliaia di cadaveri, osservando davanti ai proprio occhi il destino a cui erano momentaneamente sfuggiti. Senza possibilità: un deportato selezionato per il Sonderkommando doveva accettare l’incarico conferito dai nazisti. Nessuna alternativa, se non la morte per aver rifiutato un ordine dei tedeschi. La tortura veniva utilizzata per “convincere” i soggetti più restii. I pochi sopravvissuti di queste unità speciali, a differenza di molti altri deportati, decisero di non raccontare nulla: il ruolo di complici dei carnefici ha continuato a violentare la loro coscienza per decenni. Lo stesso Primo Levi, autore del celebre romanzo Se questo è un uomo, ha definito i Sonderkommando i «corvi neri del crematorio», dipingendoli come brutali, selvaggi e criminali. Nel libro I sommersi e i salvati, Levi scrive: «Sono i manovali della strage, preferiscono qualche settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma in nessun caso si indussero ad uccidere di propria mano, credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli. Chiunque osi tentare un giudizio, immagini di trovarsi scagliato in un inferno indecifrabile: qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato».
Testimonianze – Alcuni superstiti raccontano che ai Sonderkommando venivano riservati, come risarcimento della loro collaborazione, diversi privilegi: un razione in più di cibo, un’ora in più di riposo, un trattamento meno disumano. Eppure, in quanto testimoni delle atrocità compiute dai nazisti, i componenti dei Sonderkommando venivano periodicamente eliminati (sebbene vi furono delle eccezioni). Ad Auschwitz si avvicendarono 12 di queste unità speciali, ognuna delle quali utilizzava dai 700 a 1000 addetti. Oltre alla cremazione dei corpi, erano costretti a svolgere altre funzioni: accompagnare i gruppi di prigionieri alle camere a gas, aiutarli a svestirsi, tagliare i capelli ai cadaveri, estrarre loro i denti d’oro, recuperare oggetti e indumenti negli spogliatoi. Il 7 ottobre 1944 si ricorda una rivolta dei Sonderkommando di Auschwitz. L’esito fu un bagno di sangue: in risposta ai tre soldati tedeschi uccisi, gli ufficiali delle SS ordinarono lo sterminio di tutti i ribelli e l’impiccaggione di quattro donne polacche accusate di avere collaborato alla protesta.
Sopravvissuto – I Sonderkommando furono introdotti in molti campi di sterminio. Auschwitz-Birkenau, Sobibór, Treblinka, Majdanek e Bełżec sono solamente alcuni esempi. Una pratica che secondo Primo Levi aveva come obiettivo «tentare di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti […] aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo». Sono rare le testimonianze di Sonderkommando pervenuteci oggi. Il “peso della colpa”, come lo chiama Primo Levi, è talmente grande da spingere queste persone nell’oblio, tra senso di colpa, vergogna e orrore. La Shoah è stata violenza anche psicologiaca, non solo fisica. Shlomo Venezia è uno dei pochi membri delle unità speciali, sopravvissuto ad Auschwitz-Birkenau, che è riuscito a raccontare la sua esperienza. Ha raccolto le sue testimonianze in un libro (Sonderkommando Auschwitz. Rizzoli, Milano, 2007). Il valore dei suoi ricordi ha spinto Roberto Benigni a scegliere Shlomo Venezia come consulente per il suo capolavoro sull’olocausto “La vita è bella“. L’autore, ebreo di Salonicco, di nazionalità italiana, nel suo testo ammette che la sua anima afflitta non ha mai lasciato realmente il recinto del lager: «Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto…Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio».
Ivano Pasqualino
Ultimi commenti